sabato 13 settembre 2008

“…Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui…” di Francesca Longo, Francesco Liotta e Salvatore Santangelo

C’è chi viaggia per ritornare, chi si trova a viaggiare, e chi viaggia per sete di conoscenza…

“…Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente…Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale…”.
Ecco come Dante descrive, nella Divina Commedia, il dolore dell’esilio, l’angoscia dell’essere lontani dalla propria terra.
Quanto deve essere doloroso per una persona che è nata e cresciuta nella sua terra, con la sua gente, con le sue tradizioni, la sua lingua, la sua religione, dovere preparare la valigia, per cause maggiori, di carattere politico ed economico, e dover “mettere radici” in una terra completamente differente dalla propria…
Per saperne di più circa le problematiche che gli immigrati nella nostra provincia affrontano quotidianamente, Bloc Notes ha incontrato una giovane donna che ha vissuto tale disagio, ed ha, in contemporanea, bussato alla porta del “Centro Interculturale Casa dei Popoli” di Catania, una struttura permanente di riferimento per le comunità di cittadini stranieri presenti in città.
Attiva fin dal 1995, ha contributo, in modo determinante, a sviluppare un profondo e positivo rapporto fra le “culture altre”, l’Amministrazione ed il territorio.
Tante le iniziative e i servizi che essa offre: dai corsi di lingua italiana permanenti e differenziati ad un supporto ai minori stranieri e alle loro famiglie per la scelta scolastica e l’inserimento nella scuola dell’obbligo;dall’assistenza sanitaria…alla mediazione con le autorità consolari italiane e straniere o con l’Ufficio Immigrati della Questura di Catania…

A colloquio con la dott.ssa Paola Scuderi, responsabile del “Progetto Immigrati Casa dei Popoli”.

-Nel territorio catanese, sono presenti, ormai da tempo, diverse etnie. Si tratta di fenomeni migratori distinti?
-Sicuramente. Ogni gruppo etnico ha una propria cultura e vive la migrazione in modo differente. Ad esempio i mauriziani affrontano la “classica migrazione da lavoro”, con un periodo di emigrazione che va dai 14 ai 20 anni. Il loro obiettivo è quello di ritornare poi nella propria terra. Non fuggono da nessuna guerra. Le prime migrazioni, nel nostro territorio, risalgono a circa 15 anni fa…anche se, nel corso degli anni, è cambiata la tipologia di lavoro che cercano: se prima infatti lavoravano tutto il giorno, magari facendo pulizie, nelle abitazioni private, oggi li troviamo nei negozi, impegnati in lavori di cura…e soprattutto nel settore turistico ed alberghiero, alla ricerca di una specializzazione che, al momento del rimpatrio, potrà essere loro utile, visto che le Mauritius, come è noto, vivono di turismo.
Durante il loro soggiorno si integrano bene, è l’etnia più inserita, i ragazzini vanno a scuola regolarmente e sono, quasi tutte, famiglie ricongiunte.
I singalesi hanno invece situazioni più difficili alle spalle, lo Sri Lanka purtroppo è un territorio dove da tempo si scontrano diversi gruppi etnici (tamil, cattolici…), e spesso quindi scappano dalla guerra, alla ricerca comunque di un lavoro, richiamando sempre a sé la propria famiglia.
I cinesi sono invece i protagonisti di un’altra tipologia di immigrazione: la loro è un’espansione di mercato, voluta, soprattutto, dallo stato.
Provengono, in gran parte, da regioni della Cina ben definite economicamente, come il Fujan, dove le persone sono una vera risorsa per il mercato. E’ una sorta di “franchsing” il loro. I cinesi arrivano, a differenza di altri migranti, con i permessi di lavoro…ciò significa che sono persone ricche e affrontano quindi un percorso differente rispetto a chi arriva da turista e poi rimane magari qui come irregolare, senza un lavoro. I bambini cinesi riescono ad avere successi scolastici in pochissimo tempo, hanno abilità di base, soprattutto a livello logico-matematico, distinte.
I senegalesi invece, difficilmente si ricongiungono alle proprie famiglie. I maschi adulti sono commercianti e si spostano loro… non la famiglia. Non sono persone che si radicano in un’altra terra diversa dalla loro. Se hanno la possibilità economica tornano più volte nel proprio paese, ma quando sono qui si adattano facilmente, socializzano molto.
I paesi dell’Est Europa (Romania, Bulgaria, Polonia…) hanno una situazione a sé stante: fanno parte dell’UE ma non hanno un lavoro e non hanno la coscienza di essere europei. Si sentono stranieri e noi stessi li sentiamo stranieri perché sono persone non integrate a livello socio-lavorativo. Chi viene dall’Est è spinto dalla fame, dalla disperazione. La maggior parte di loro non è formata da giovani, ma sono signore dai 40 ai 60 anni che non riescono, nel loro paese, a vivere con la pensione statale, vengono qui per 3-4-5 anni, fanno dei sacrifici e poi tornano a casa con un po’ di denaro.
La prima migrazione dall’Est risale a circa 10 anni fa, ed era poco “culturalizzata” (tutta gente con diplomi di scuole elementari,al massimo delle scuole medie). Ora invece fra loro ci sono tanti laureati, molti specializzati addirittura.
Se si prestano a lavori umili è perché non c’è equipollenza per i titoli di studio fra i vari stati, o, perlomeno, è un percorso molto farraginoso quello della conversione dei titoli di studio fra paesi differenti, e chi viene qui per poco tempo evita di affrontarlo.
Insomma il tema del “viaggio” non ha per tutti lo stesso percorso. C’è chi viaggia per ritornare, chi si trova a viaggiare o chi viaggia per sapere: i ragazzi marocchini ad esempio spesso affrontano la migrazione per sete di conoscenza, perché non si sentono liberi di pensare nella loro terra o non possono fare il lavoro che più gli aggrada…non è l’idea del ritorno che li muove ma la voglia di conoscere realtà diverse dalla propria.

-Fra i migranti che si rivolgono al vostro centro sono molti i clandestini?
-Io non parlerei di clandestini ma di “irregolari”. Chi si presenta nel nostro centro ha un documento, non siamo tenuti a vedere il permesso di soggiorno. E’ vero che c’è un’ampia fetta di irregolari, e per loro, a Catania, ci sono dei centri appositi : gruppi di accoglienza immediata che provvedono a tutto il necessario per rifocillare questa gente (docce, cambio vestiti, cibo…). Tanti di loro oggi sono irregolari perché hanno perso il lavoro. Da noi si diventa “irregolari” quando scade il permesso di soggiorno, ma non significa essere clandestini, non si ha la documentazione per potere rimanere in Italia, ma non si è privi di documenti.

-Cosa significa “integrazione” per questa gente e come viene vissuto questo fenomeno nella nostra terra?
-l’integrazione non è un fenomeno che riguarda il migrante, chi arriva da un’altra realtà, ma è una dinamica che scatta nel momento in cui c’è la volontà dello scambio da parte dei due gruppi. Mi piace dire che è un fenomeno che si riduce ad una “dinamica di gruppo”. I gruppi diversi si incontrano, interagiscono e si scambiano nel tempo… La storia ci insegna che i fenomeni di integrazione non sono facili e non sono per nulla pianificabili, si può giungere alla sovrapposizione delle due realtà diverse ma può anche non succedere. E’ chiaro che le generazioni più anziane difficilmente giungeranno ad un percorso di integrazione; sarà più semplice invece per i figli dei figli che cresceranno qui.
Fra un bel po’ di anni potremo dire se c’è stata integrazione o meno, ora possiamo solo tentare di lavorare cercando di abbandonare le differenze.
I percorsi di integrazione mirano al rispetto delle culture altre e questo è differente dal fenomeno dell’immigrazione, che , sicuramente, non è il canale migliore per dare vita ad una buona integrazione, anzi, forse è proprio quello peggiore perché forzato.
Oggi qui da noi non c’è ancora tutta questa accettazione della diversità culturale, non è così semplice. Io credo che l’unica possibilità per l’integrazione sia il continuo contatto, positivo e voluto.
Il mondo cambia continuamente e la cosa bella è che è di tutti. Il nostro spazio è anche di altre persone, sempre nel rispetto di norme e regole del vivere civile. Chi occupa la terra ha diritto ad avere il suo spazio vitale.

Da Victoria (Romania) a Biancavilla…sperando in una vita migliore. A colloquio con Marin Marcela Mirela, un’immigrata rumena che vive a Biancavilla da quattro anni.

Viso angelico, capelli biondi e due occhioni guardinghi e sospetti che scrutano con circospezione. Il compagno, Francesco, un ragazzo biancavillese, le fa cenno con il capo, la rassicura. Inizio la nostra intervista.

-Come sei arrivata qui e perché hai scelto proprio Biancavilla?
-Sono venuta in autobus, da sola, sapendo di trovare un alloggio presso altri rumeni, che già da tempo avevano fatto la stessa esperienza.
-Sicuramente hai coraggio da vendere… Hai avuto problemi ad integrarti in questa nuova realtà?
-Non è stato semplice. Non conoscevo la lingua e per 3-4 mesi non riuscivo ad interagire. Non è stato facile nemmeno trovare lavoro, ho dovuto aspettare 3 mesi prima di iniziare a fare la badante… Ma guadagnavo poco. Le mie ore lavorative erano 8 giornaliere, per una paga di 450 euro mensili. Se non fosse stato per i miei compaesani che mi permettevano di abitare con loro, non avrei potuto pagare nemmeno l’affitto…

-Ora noto con piacere che capisci bene l’italiano, e anche il dialetto siciliano…?
-Si, ma ho impiegato almeno 4 mesi prima di potere iniziare a parlare la vostra lingua. Comunque so che ora, alla “Caritas”, tengono dei corsi di italiano per gli immigrati.

-Attualmente che mestiere fai?
-Faccio le pulizie. Ho un contratto di lavoro regolare, e riesco a vivere più dignitosamente rispetto ai primi tempi.

-Quando sei arrivata, hai fatto fatica a fare amicizie?
-Non ho proprio fatto amicizie. Il pensiero fisso di chi, come me, viene da un’altra terra, a queste condizioni, è quello di lavorare il più possibile e di stare tranquilli economicamente. Io lavoravo e basta. Non sono mai uscita la sera, se non per le feste di paese, insieme ai miei compaesani.

-Cosa ti manca di più della tua terra?
-Le feste come il Natale, la santa Pasqua…da quando sono qui per me non sono più esistite; e poi la mia lingua.

-Cosa ti ha dato Biancavilla?
-Un lavoro, l’indipendenza economica e da qualche tempo anche l’amore.

-Cosa rimproveri a Biancavilla?
-Non condivido la mentalità di molti biancavillesi di considerare noi donne rumene poco serie. Non è così. Altra cosa che indispone sono le paghe misere che ci vengono date, nonostante il tipo di lavoro, spesso umile e duro, che andiamo a fare. Ci sentiamo sfruttati.


Francesco Liotta e Francesca Longo.