martedì 11 novembre 2008

Figli di un Dio Minore: "Cola de' Cuteddi" di Pippo Ventura

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Cola era Cola e basta. E si vedeva in giro ancora qualche anno fa. Non incontrandolo più, ho chiesto sue notizie: ci ha lasciati.
Non gli era stato appioppato un epiteto colorito e caratterizzante, perciò chi parlava di lui gli bastava dire Cola, ma se proprio lo voleva definire meglio, aggiungeva “de’ cuteddi”, per il fatto che proprio i coltelli erano stati, in maniera preponderante, gli articoli trattati da Cola nella sua instancabile e ininterrotta attività commerciale. Infatti Cola era, a modo suo, un commerciante: comprava e vendeva; lo si potrebbe collocare nella categoria degli ambulanti, chè i suoi affari li faceva sulle strade del paese e specialmente in piazza e nella via principale. Cominciò forse con i coltelli, e poi si allargò, trattando cinture, gondole veneziane rilucenti di specchietti e nastrini colorati; santi vari incapsulati in quelle sfere di vetro e immersi in un liquido che si arricchiva di fiocchi di neve quando le capovolgevi.
Il suo modo di affrontare gli affari è passato alla storia paesana con il celebre “commercio di Cola”, caratterizzato da un prezzo di vendita inferiore a quello di acquisto: si era sparsa la voce, infatti, che comprasse a cento per rivendere a cinquanta, perciò quando i commercianti veri, ieri come oggi, non sanno o non possono rivendere con il giusto margine di guadagno, si dice che fanno “u cummerciu di Cola”.
Chi “frequentava” la piazza aveva modo di incontrarlo, a tutte le ore del giorno, leggermente curvo sulla schiena, il capo, piccolino, non perfettamente ortogonale col busto e gli occhi ora vivi, ma più spesso smarriti come di chi non riesca a rendersi conto di ciò che gli accada attorno o di che cosa vogliano da lui coloro che lo osservano mentre passa con le sue ampie falcate, spesso spostandosi da un marciapiede all’altro, a secondo che volesse incontrare, o non incontrare, qualcuno. Procedeva sempre a passo spedito, come se avesse fretta di andare chissà dove o forse avesse paura di chissà che cosa. Come tutti i comuni mortali, Cola aveva il suo tallone d’Achille, lui che dei mortali era uno dei più comuni: i capelli, anzi, il capello. Se fossero stati i capelli, tutti, qualcuno sarebbe indotto a sospettare che il nostro Cola avesse un qualcosa in comune con Sansone, il celebre forzuto della Bibbia, ma trattandosi del “capello”, l’attenzione potrebbe spostarsi sul mitico eroe greco, Niso, che aveva la particolarità di aver impiantato in testa, tra i neri, un capello d’oro, che poi la figlia gli tagliò ecc..ecc… No, niente di biblico, né di mitico. Cola, e non poteva essere diversamente, era oggetto di canzonatura da parte del buontempone che staziona in piazza per ridere alle spalle dell’innocente malcapitato che presta facilmente il fianco ai dardi della presa in giro, o del monellaccio che aveva imparato dai grandi come fare arrabbiare Cola. E questa arrabbiatura aveva come causa scatenante il “capello”. A chi non sa niente di Cola, dirò subito che la capigliatura del “nostro” non mostrava niente di particolare, anzi, per quello che mi è dato ricordare, era ben tenuta, e l’opera del suo “parrucchiere”, per quanto, a volte massiccia e intensa, non riusciva a cancellare i riccioli che si sarebbero formati con una crescita più abbondante. Ma allora, il mistero di questo benedetto capello, dove sta? Non so come e non so quando, fatto sta che un motivetto molto diffuso tra i giovani di cinquant’anni addietro, fu particolarmente riservato a Cola, e le parole dicevano soltanto: “ ‘o tagghiti ‘u capiddu…”.
Quando qualcuno si azzardava a “cantare” il motivetto o, soltanto, a fischiettarglielo dietro, apriti cielo!
Cola si scatenava e buon per il rompiscatole se si riceveva un sfilza di “Figghiu di buttana…!, figghiu di arrusa…, ‘O frischici a ta soru…”, e altre espressioni coloratissime del linguaggio social-popolare della nostra gente. E a volte ci scappava anche la minaccia o addirittura il lancio di una pietra, arma che il Cola andava a raccattare in qualche traversa dove di pietre non ne mancavano di certo.
Cola non era affatto un violento, anzi, quelle poche volte che mi è capitato di scambiare qualche parola, vuoi per rabbonirlo, vuoi per chiedere il prezzo dell’articolo che stava portando in giro, gli leggevi negli occhi un’implorazione di solidarietà o , in caso di commercio, un sorrisetto ironico sulle labbra, quasi malizioso, come di chi pregusta l’affare e il piacere di averti come cliente morbido, interessato, comunque, alla mercanzia varia trattata saltuariamente dal giovane…imprenditore.
Dice: “Ma Cola faceva il commercio di Cola!”, e che importanza ha? “Ci perdeva”, Ma che importanza poteva avere? Per lui, sicuramente, la cosa più gratificante era concludere l’affare, e considerato il genere di merce trattato, non era facile.
Bisogna riconoscere che Cola si era abituato a quel motivetto, cantato o fischiettato dall’immancabile provocatore appostato all’angolo della strada o appoggiato allo stipite della porta del bar Colonna o, d’estate, seduto “ a rocchia” con gli amici, davanti alla Società, e poteva accadere che se la provocazione non arrivava, Cola ci restava male, quasi offeso di passare inosservato, come indegno, in quella occasione, della solita attenzione. Usavamo sedere, nei pomeriggi d’estate, davanti alla sartoria di Biagio, in quelle sedie di zammara, senza schienale, che ai sarti non giovava, lavorando chini sulle loro stoffe che “‘nciumavano e rinciumavano”, specialmente le maniche di giacche, che dovevano cadere a pennello, prima di essere passate alla macchina. Biagio e i suoi giovanissimi lavoranti lavoravano d’ago, mentre gli ospiti, spesso …di forbici. Puntuale, ad una certa ora, passava Cola, diretto chissà dove, per fare chissà cosa. Biagio una volta lo scorse e subito: “Mi raccomando, lassàtilu ‘mpaci….s’annunca, cu’ senti?”. Cola passò, nessuno fiatò, anzi, quasi tutti , non lo degnammo di uno sguardo, la qual cosa deve aver turbato “l’uomo dei coltelli” più dell’abituale motivetto che di solito lo accompagnava durante tutti i suoi percorsi, centrali o periferici. C’era andata bene, eravamo stati bravi, eravamo riusciti a sostenere la parte e un prolungato silenzio. “Ah, meno male, non è successo niente, siamo stati all’altezza delle situazione!”, sussurrò qualcuno. “Non vi illudete - replicò subito Biagio, che conosceva il suo…pollo - tanto ora torna…”. E Cola subito, tornò sui suoi passi e stavolta, a differenza dell’andata, sul marciapiede quasi totalmente occupato da noi; era chiaro, voleva sfidarci, ci invitava alla provocazione, ma non ci cascammo, nessuno si prestò al suo gioco. Io, però, non resistetti al suo sguardo implorante, umido e sfuggente, e lo intrattenni su un argomento che , sapevo, gli stava molto a cuore: la sua attività commerciale. “Cola, senti, mi giova un cinturino… “, “ ‘Ncinturinu..?”. E le sue labbra si aprirono al sorriso, quel suo sorriso mesto e leggero in cui potevi leggerci quasi un senso di gratitudine. “No, ppi ora non nn’haiu, quannu ‘ u trovu, t’u portu”, “Ah, va beni, ni videmu caa…”, lo rassicurai, per fargli capire che parlavo sul serio. Si allontanò felice. Non avevamo cantato né fischiato, anzi, gli avevamo proposto un affare. Gli avevo mentito sulla cintura, ma sono certo che mai una bugia avesse fatto tanto bene a qualcuno. Cola, comunque, non venne a cercarmi per concludere l’affare del cinturino: sono certo che, fatti pochi passi, se ne sia subito dimenticato.
Pippo Ventura