giovedì 11 dicembre 2008

Figli di un Dio minore: Cola Magghia - di Pippo Ventura

turacul turacul
Non era sicuramente un personaggio “pubblico”, come uno di quelli tratteggiati in queste pagine che, per un motivo o per un altro, frequentavano la piazza, o le strade del paese, no, anzi conduceva una “vita ritirata” e forse anche per questo risultava “misterioso” agli occhi di una ristretta cerchia di conoscenti interessati, coinvolti, bisognosi di improbabili aiuti che sarebbero potuti derivare dalla sua arte magica, o soltanto, divinatoria.
Cola Magghia, infatti, possedeva il “libro del cinquecento”, cosa di per se stessa da stupire i paesani che lo conoscevano, o forse non lo conoscevano bene, ma cosa ancora più stupefacente, in quel libro ci sapeva leggere, e lo sapeva interpretare, perché c’era da interpretarlo, e non era da tutti, perché il libro era scritto in latino.
Come poteva un uomo, appena alfabetizzato, leggere e capire il latino? Il fenomeno destava meraviglia e stupore presso una larga schiera di persone che avevano troppa dimestichezza con la carta stampata.
La verità è che Cola Magghia, più che tradurre, interpretava a modo suo, molto ad sensum, quello che stentatamente, riusciva a leggere, e quindi, più che al senso delle frasi, al significato delle parole, si affidava al suono di esse da cui gli astanti che ascoltavano con evidente apprensione traevano “auspici”, a secondo di quello che si aspettavano che il libro volesse far sapere, del messaggio che volesse loro comunicare. E in ciò penso che il “lettore” ci mettesse qualcosa di suo per orientare verso una o un’altra interpretazione: lui si limitava a leggere e, alla fine, ad aspergere cose, animali e persone con acqua salata aiutandosi con un ciuffo di basilico.
Poiché sono stato testimone oculare e auricolare di un intervento del nostro omino, ne scrivo con una certa cognizione di causa perché c’è da ritenere che ovunque fosse chiamato, Cola Magghia rispettasse i canoni di una consolidata ritualità.
Fu negli anni subito dopo la guerra che mia madre si ammalò di una misteriosa malattia: cominciò con un impercettibile zoppio fino ad essere costretta a trascorrere le sue giornate tra una sedia e il letto.
I medici del tempo, anche quelli di Catania, forse riuscirono a formulare una diagnosi, ma non a mettere in atto una efficace terapia.
E quando la scienza si arrende, le donne e le comari del quartiere si sentivano in obbligo di suggerire mezzi “trasversali”, terapeuti dotati di capacità ed energie provenienti dal mondo dell’occulto, che ha sempre affascinato, ed affascina tuttora, tanta gente bisognosa di aiuto che i canali ufficiali non sanno fornire.
E noi, dopo i celebri Condorelli e Francaviglia, luminari della medicina al Vittorio Emanuele di Catania, ricorremmo, tra gli altri, anche a Cola Magghia, il quale, in una serata piovigginosa, venne, lesse nel suo libro del ‘500, asperse con acqua salata la malata…e anche i sani.
Cominciavo ad assaggiare, allora i primi elementi di latino e quella sera resistetti alla tentazione di sbirciare sulla pagina che il Magghia scorreva lentamente, con i suoi occhi miopi, nascosti dietro spessi vetri, facendo sentire a stento certi suoni articolati confusamente e difficilmente interpretabili.
Per rendersi conto del meccanismo interpretativo, può bastarvi sapere che un “venit” latino, che si traduce “viene” o “venne”, indusse la zia Carmela, che era la sorella di mia nonna Pudda, ad esclamare: -Veruè…’i vini… il male risiedeva nelle vene!
Cola Magghia non confermò né smentì l’interpretazione della donna, ma quella sera le comari avevano avuto la conferma dei loro sospetti: anche nel libro del ‘500 si parlava di vene!
Mio padre non disse niente; conosceva il Magghia prima che diventasse, o fosse ritenuto, indovino e guaritore: in gioventù si erano incontrati parecchie volte nei pascoli nelle nostre campagne, con un bastone in mano, intenti a controllare i movimenti dei loro greggi, e in quelle occasioni il giovincello, gracile, mal vestito e bruciato dal sole, non aveva mai manifestato qualità “particolari”.
Un giorno, non si sa come né dove, trovò un libricino con la fodera nera, sicuramente il breviario di un vecchio prete e , probabilmente, cominciò a leggerne qualche libro che, ai suoi occhi, e agli orecchi di chi ascoltava, dovette suonare misterioso ed indecifrabile, come è il latino per chi nulla sa di declinazioni e coniugazioni, di genitivi e accusativi, di perfetti e piuccheperfetti.
Anche se in una cerchia ristrettissima di conoscenti e amici, si radicò la convinzione che quello fosse il libro del cinquecento, e, a saperlo leggere, avrebbe potuto dare la spiegazione dei moltissimi misteri che turbavano la vita degli uomini di un centinaio di anni fa, e turbano ancora quelli dei nostri tempi.
Pippo Ventura